ELOGIO DEL SONNO L’IMPORTANTE NON È IL SOGNO MA ASSENTARSI DA SE STESSI
Quando, nel Sogno di una notte di mezza estate, Bottom dice a Titania: «Ma, ti prego, non permettere a nessuno della tua gente di svegliarmi. Mi viene addosso una certa esposizione al sonno», capiamo che è piuttosto stanco, e supponiamo, come suggerisce efficacemente il commentatore dell’edizione Arden, che «esposizione», che significa sia scoprirsi che spiegare, è «una storpiatura di “disposizione”», ossia una tendenza naturale ma anche l’intenzione di disporre della proprietà di qualcuno.
Una naturale inclinazione al sonno è più plausibile di una spiegazione del sonno, poiché dormire è qualcosa che facciamo quando non siamo consapevoli di ciò che stiamo facendo. Quando dormiamo, quando recitiamo in una commedia, quando siamo prigionieri di un incantesimo, non possiamo al tempo stesso spiegare cosa stiamo facendo senza svegliarci o senza spezzare l’incantesimo. Come cerca di mostrarci la commedia, possiamo trovarci in un unico luogo per volta, ma spesso siamo in due luoghi simultaneamente.
Ma cosa può dire il mio sé sveglio del mio sé che dorme? Non molto. Anziché dormirci sopra, dormiamo per smaltire le cose, come se pensassimo che il sonno fosse una liberazione; come se il sonno ci permettesse di fuggire dalle cose, anziché rielaborarle.
È dal sonno che ci accorgiamo di esserci o meno, se stiamo perdendo o ritrovando noi stessi, se siamo assenti o presenti; ma l’aspetto forse più interessante è che il sonno è la nostra esperienza, originaria e molto probabilmente perduta, di un’assenza che al tempo stesso non è un’attesa. Talvolta- anche se più spesso da bambini- non vediamo l’ora di svegliarci, ma senza sapere perché, senza aspettarci nulla.
Risvegliarci ogni mattina per anni e anni potrebbe rassicurarci del fatto che possiamo ritrovare quanto abbiamo perso, che dal nulla può venire qualcosa, che non possiamo ricordare interi frammenti dell’esperienza proprio perché non li avevamo mai dimenticati, che abbiamo bisogno di “staccare”, e così via.
In più, non siamo mai abbastanza grandi per il sonno, che Seamus Heaney chiama «l’esperienza pre-riflessiva vissuta» dell’infanzia. È come se avessimo bisogno di essere regolarmente assenti a noi stessi, e in un modo che non può essere espresso; possiamo parlare del sonno come di un fenomeno- gli scienziati, e le persone che ci osservano mentre dormiamo, possono dirci come siamo, cosa diciamo - ma non potremo mai riferire ciò che abbiamo fatto, ciò che è successo, se non nel modo più banale («Ho dormito davvero bene», «Ho avuto una notte terribile», e così via). Il sonno, in altre parole, è un bisogno di cui possiamo avere esperienza solo nell’attesa,e come attesa.
Possiamo desiderarlo ma non averlo, possiamo avere esperienza del prima e del dopo, ma mai del sonno in sé. Nessuno dirà mai, se non nel sonno, «sto dormendo davvero bene».
Talvolta possiamo raccontare un sogno, ma non il sonno durante il quale abbiamo sognato; non abbiamo esperienza dei sogni come di qualcosa che accade durante il sonno (niente nel sogno ci dice che stiamo dormendo). Il sonno è una delle nostre attività più intime e profonde, e possiamo saperne qualcosa solo da qualcun altro. Così, se pensassimo al sonno come a un’esperienza, questa modificherebbe radicalmente l’idea di ciò che può essere un’esperienza; se pensassimo al sonno come a un oggetto della conoscenza, confermerebbe che dipendiamo dagli altri per ottenere questa conoscenza; e se pensassimo al sonno come a un oggetto del desiderio - e come a uno dei paradigmi originari o a un modello del desiderio - potremmo ridefinire radicalmente l’oscurità di tali oggetti.
Dopotutto, il sonno occupa il nostro tempo più di ogni altro fra i nostri primissimi desideri; e, naturalmente, è l’unico dei nostri desideri che non può essere soddisfatto da qualcun altro (il genitore può creare le condizioni per il sonno, ma non può dare al bambino il sonno). Poniamoci due domande: che genere di oggetto del desiderio è il sonno? E cosa può dirci a proposito del desiderio? Non sarebbe strano se il sonno fosse il modello di molte cose che facciamo. E non sarebbe strano se tendessimo a non notarlo. Poiché dormire è qualcosa che facciamo senza sapere di farlo.
Il sonno è un «oggetto del desiderio» particolarmente oscuro perché non è un oggetto, e non ha una collocazione nel mondo esterno. Se è da qualche parte, è dentro di noi come una disposizione, un bisogno, un processo; ma a differenza degli altri appetiti dobbiamo esserne inconsapevoli per esserne appagati. E probabilmente lo consideriamo un mezzo in vista di un fine, non un fine in se stesso; vogliamo ciò che ci può dare, non pensiamo al sonno come a uno scambio, e in questo senso la nostra capacità di dormire è un modello della nostra capacità di bastare a noi stessi, dato che il sonno è qualcosa che ci procuriamo da soli.
Voler dormire significa volere qualcosa che nessuno ci può dare, ma che chiunque può impedirci di fare. Così, in quanto oggetto del desiderio, posso sempre dormire, ma io o qualcun altro possono impedirmelo. Gli altri, fra cui anch’io, devono perm e t t e r m i n o n t a n t o d i «prendere» sonno, ma che «mi venga» sonno, come dice Bottom. Il sonno non è qualcosa che possiamo prendere, ma solo ricevere. Così, quando diciamo «prendere sonno» stiamo commettendo un errore categoriale.
Se vedessimo nel sonno il modello dell’oggetto del desiderio, se cominciassimo a vedere nel desiderio qualcosa di più simile al desiderio di dormire, ci comporteremmo in modo molto diverso. Ad esempio, rinunceremmo alla soddisfazione per assaporare l’attesa.E non penseremmo che sia possibile, o che abbia molto senso, raccontarlo.
(Traduzione di Francesco Zago)
ADAM PHILLIPS
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mi piace pensare che questo gatto possa anche sognare
Quando, nel Sogno di una notte di mezza estate, Bottom dice a Titania: «Ma, ti prego, non permettere a nessuno della tua gente di svegliarmi. Mi viene addosso una certa esposizione al sonno», capiamo che è piuttosto stanco, e supponiamo, come suggerisce efficacemente il commentatore dell’edizione Arden, che «esposizione», che significa sia scoprirsi che spiegare, è «una storpiatura di “disposizione”», ossia una tendenza naturale ma anche l’intenzione di disporre della proprietà di qualcuno.
Una naturale inclinazione al sonno è più plausibile di una spiegazione del sonno, poiché dormire è qualcosa che facciamo quando non siamo consapevoli di ciò che stiamo facendo. Quando dormiamo, quando recitiamo in una commedia, quando siamo prigionieri di un incantesimo, non possiamo al tempo stesso spiegare cosa stiamo facendo senza svegliarci o senza spezzare l’incantesimo. Come cerca di mostrarci la commedia, possiamo trovarci in un unico luogo per volta, ma spesso siamo in due luoghi simultaneamente.
Ma cosa può dire il mio sé sveglio del mio sé che dorme? Non molto. Anziché dormirci sopra, dormiamo per smaltire le cose, come se pensassimo che il sonno fosse una liberazione; come se il sonno ci permettesse di fuggire dalle cose, anziché rielaborarle.
È dal sonno che ci accorgiamo di esserci o meno, se stiamo perdendo o ritrovando noi stessi, se siamo assenti o presenti; ma l’aspetto forse più interessante è che il sonno è la nostra esperienza, originaria e molto probabilmente perduta, di un’assenza che al tempo stesso non è un’attesa. Talvolta- anche se più spesso da bambini- non vediamo l’ora di svegliarci, ma senza sapere perché, senza aspettarci nulla.
Risvegliarci ogni mattina per anni e anni potrebbe rassicurarci del fatto che possiamo ritrovare quanto abbiamo perso, che dal nulla può venire qualcosa, che non possiamo ricordare interi frammenti dell’esperienza proprio perché non li avevamo mai dimenticati, che abbiamo bisogno di “staccare”, e così via.
In più, non siamo mai abbastanza grandi per il sonno, che Seamus Heaney chiama «l’esperienza pre-riflessiva vissuta» dell’infanzia. È come se avessimo bisogno di essere regolarmente assenti a noi stessi, e in un modo che non può essere espresso; possiamo parlare del sonno come di un fenomeno- gli scienziati, e le persone che ci osservano mentre dormiamo, possono dirci come siamo, cosa diciamo - ma non potremo mai riferire ciò che abbiamo fatto, ciò che è successo, se non nel modo più banale («Ho dormito davvero bene», «Ho avuto una notte terribile», e così via). Il sonno, in altre parole, è un bisogno di cui possiamo avere esperienza solo nell’attesa,e come attesa.
Possiamo desiderarlo ma non averlo, possiamo avere esperienza del prima e del dopo, ma mai del sonno in sé. Nessuno dirà mai, se non nel sonno, «sto dormendo davvero bene».
Talvolta possiamo raccontare un sogno, ma non il sonno durante il quale abbiamo sognato; non abbiamo esperienza dei sogni come di qualcosa che accade durante il sonno (niente nel sogno ci dice che stiamo dormendo). Il sonno è una delle nostre attività più intime e profonde, e possiamo saperne qualcosa solo da qualcun altro. Così, se pensassimo al sonno come a un’esperienza, questa modificherebbe radicalmente l’idea di ciò che può essere un’esperienza; se pensassimo al sonno come a un oggetto della conoscenza, confermerebbe che dipendiamo dagli altri per ottenere questa conoscenza; e se pensassimo al sonno come a un oggetto del desiderio - e come a uno dei paradigmi originari o a un modello del desiderio - potremmo ridefinire radicalmente l’oscurità di tali oggetti.
Dopotutto, il sonno occupa il nostro tempo più di ogni altro fra i nostri primissimi desideri; e, naturalmente, è l’unico dei nostri desideri che non può essere soddisfatto da qualcun altro (il genitore può creare le condizioni per il sonno, ma non può dare al bambino il sonno). Poniamoci due domande: che genere di oggetto del desiderio è il sonno? E cosa può dirci a proposito del desiderio? Non sarebbe strano se il sonno fosse il modello di molte cose che facciamo. E non sarebbe strano se tendessimo a non notarlo. Poiché dormire è qualcosa che facciamo senza sapere di farlo.
Il sonno è un «oggetto del desiderio» particolarmente oscuro perché non è un oggetto, e non ha una collocazione nel mondo esterno. Se è da qualche parte, è dentro di noi come una disposizione, un bisogno, un processo; ma a differenza degli altri appetiti dobbiamo esserne inconsapevoli per esserne appagati. E probabilmente lo consideriamo un mezzo in vista di un fine, non un fine in se stesso; vogliamo ciò che ci può dare, non pensiamo al sonno come a uno scambio, e in questo senso la nostra capacità di dormire è un modello della nostra capacità di bastare a noi stessi, dato che il sonno è qualcosa che ci procuriamo da soli.
Voler dormire significa volere qualcosa che nessuno ci può dare, ma che chiunque può impedirci di fare. Così, in quanto oggetto del desiderio, posso sempre dormire, ma io o qualcun altro possono impedirmelo. Gli altri, fra cui anch’io, devono perm e t t e r m i n o n t a n t o d i «prendere» sonno, ma che «mi venga» sonno, come dice Bottom. Il sonno non è qualcosa che possiamo prendere, ma solo ricevere. Così, quando diciamo «prendere sonno» stiamo commettendo un errore categoriale.
Se vedessimo nel sonno il modello dell’oggetto del desiderio, se cominciassimo a vedere nel desiderio qualcosa di più simile al desiderio di dormire, ci comporteremmo in modo molto diverso. Ad esempio, rinunceremmo alla soddisfazione per assaporare l’attesa.E non penseremmo che sia possibile, o che abbia molto senso, raccontarlo.
(Traduzione di Francesco Zago)
ADAM PHILLIPS
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mi piace pensare che questo gatto possa anche sognare
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